Prof. Agostino Consoli nuovo presidente della Società italiana di diabetologia.
Gli esperti della Società Italiana di Diabetologia (SID) illustrano ai giornalisti scientifici italiani le principali novità dal congresso 2021 dell’American Diabetes Association (ADA) in un Corso di Formazione Professionale Continua organizzato in collaborazione con il Master ‘La scienza nella pratica giornalistica – SGP’ dell’Università La Sapienza di Roma
Roma, 5 luglio 2021. Dal 25 al 29 giugno si sono tenuti in formato virtuale i lavori dell’81° congresso annuale dell’American Diabetes Association (ADA), uno degli appuntamenti scientifici più importanti dell’anno nel campo del diabete. La Società Italiana di Diabetologia (SID), società scientifica ad alta vocazione formativa e di ricerca, ha organizzato, in collaborazione con il Master ‘La scienza nella pratica giornalistica-SGP’ dell’Università ‘La Sapienza’ di Roma un Corso di Formazione Professionale Continua sulle principali novità e conferme emerse da questo importante appuntamento scientifico per dar modo ai giornalisti scientifici italiani di rimanere sempre aggiornati sul diabete, nonostante le difficoltà imposte dall’emergenza pandemica. Si tratta di un argomento che merita la massima attenzione, anche per l’enorme impatto epidemiologico di questa condizione. Sono affetti da diabete oltre 4 milioni di italiani e 463 milioni di persone nel mondo; si stima che entro il 2045 ci saranno nel mondo 700 milioni di persone con diabete.
Dall’evento realizzato grazie al contributo non condizionato di Lilly e Astra Zeneca, sono emerse interessanti novità per quanto riguarda farmaci, dieta e ultimo ma non ultimo, rapporto diabete-covid 19.
GLI STUDI ‘LATE-BREAKING’ PRESENTATI AL CONGRESSO DELL’ADA 2021: GRADE, SURPASS, SOLOIST, SCORED
AGOSTINO CONSOLI, presidente SID, ordinario di Endocrinologia, Dipartimento di Medicina e Scienze dell’Invecchiamento, Università ‘G. d’Annunzio’ di Chieti, responsabile della UOC Territoriale di Endocrinologia e Malattie Metaboliche della Ausl di Pescara
ANGELO AVOGARO, presidente eletto della SID, ordinario di Endocrinologia, Università di Padova, direttore dell’Unità Operativa Complessa Malattie del Metabolismo, Azienda Ospedaliera-Università di Padova e membro del Consiglio Direttivo della SID,
Trattare il diabete di tipo 2 va ben al di là del semplice controllo della glicemia e deve essere mirato a migliorare la qualità della vita dei pazienti, ritardando o scongiurando le complicanze della malattia. “Ad oggi – ricorda il professor Agostino Consoli – numerose molecole sono disponibili per il trattamento di questa forma di diabete e sta diventando complesso decidere quale sia la strategia migliore da adottare. Obiettivo dello studio GRADE, finanziato dagli NIH statunitensi e presentato all’ADA (anche se in forma preliminare per alcuni dati in forma preliminare) è proprio quello di individuare le strategie che assicurano maggiori vantaggi. Lo studio, iniziato nel 2015 e condotto in 36 centri negli USA, ha arruolato 5.000 soggetti con diabete mellito di tipo 2 in trattamento con la sola metformina e che non avevano raggiunto con questa terapia un controllo metabolico soddisfacente, e li ha randomizzati in 4 gruppi, in ciascuno dei quali veniva aggiunto alla terapia un farmaco diverso: una sulfonilurea (glimepiride), un DPP-IV inibitore (Sitagliptin), una GLP-1 agonista (Liraglutide), o un’insulina basale (glargina). Nel corso di un follow-up medio di 5 anni è stata valutata la percentuale di pazienti che, in ciascun gruppo, non riusciva a mantenere un controllo metabolico adeguato in termini di valori di emoglobina glicata (HbA1c). Sono stati valutati inoltre il rischio di ipoglicemia, l’andamento del peso corporeo, la funzionalità renale e la comparsa di eventi cardio-vascolari. I risultati dello studio confermano che un approccio ‘sequenziale’ (prima un farmaco e poi un altro) non riesce a modificare il decorso progressivo della malattia: oltre il 70% dei soggetti arruolati infatti superava nel corso dello studio il valore di Hba1c di 7,5%, definito come soglia di un controllo metabolico accettabile. Inoltre il 50% di essi superava questa soglia entro 3 anni dall’inizio della terapia con il secondo farmaco. Nessuna differenza tra i 4 farmaci in studio veniva osservata per questo parametro. Per quello che riguarda il peso corporeo, come prevedibile i soggetti trattati con liraglutide mostravano un calo ponderale nel corso del follow-up, così come i soggetti trattati con sitaglitpin (anche se, in questo caso, di minore entità). Sorprendentemente, i soggetti trattati con glimepiride o insulina, pur non perdendo peso, non mostravano significativo incremento ponderale nel corso del follow-up. Il tasso di ipoglicemia era basso in tutti i gruppi, ma maggiore nei soggetti trattati con glimepiride e minore nei soggetti esposti a liraglutide o sitagliptin. Nessuna differenza tra i diversi farmaci è emersa relativamente agli indicatori di danno renale, mentre gli eventi cardiovascolari, nel loro complesso, risultavano meno frequenti nei soggetti trattati con Liraglutide. Uno studio pur così ampio ed articolato come il GRADE – commenta il professor Consoli – non fornisce dunque informazioni definitive sul trattamento ‘migliore’ per il diabete mellito di tipo 2, per almeno 2 ragioni: 1) perché non sono stati inclusi nello studio i farmaci delle classe degli inibitori di SGLT2, introdotti nella pratica clinica più di recente e che stanno accumulando dati che ne dimostrano la loro significativa efficacia nel ridurre il rischio di scompenso cardiaco e di progressione della malattia renale. 2) perché è stato esplorato solo un approccio ‘sequenziale’ al trattamento della malattia diabetica (che si è dimostrato comunque inadeguato a limitare la progressione della malattia stessa), mentre dati da altri studi suggeriscono che iniziare con due farmaci insieme potrebbe essere utile a modificare la progressione della malattia stessa. Tuttavia lo studio GRADE ha confermato che il trattamento con farmaci innovativi come gli agonisti recettoriali del GLP-1 può avere un impatto sul rischio cardiovascolare delle persone con diabete. Inoltre la molecola di questa classe utilizzata nello studio GRADE ha confermato di essere capace di indurre una diminuzione del peso corporeo e di essere associata ad un bassissimo rischio di ipoglicemia”.
Studi di Fase 3 SURPASS relativi ad una nuova molecola, la terzipatide, un doppio agonista GLP-1/GIP, con una formulazione a lunga emivita, che ne consente la somministrazione una volta alla settimana. I dati relativi agli studi con questa molecola, che fanno parte di un ampio programma di studi chiamato SURPASS, hanno dimostrato che terzipatide è molto efficace nel ridurre la HbA1c nelle persone con diabete mellito di tipo 2: circa il 90% dei pazienti riesce a raggiungere un target di HbA1c considerato ottimale (< 7%). Contemporaneamente la molecola induce un importante calo ponderale, con una perdita di peso che sfiora i 10 Kg in 40 settimane. Su questi parametri (controllo della HbA1c e perdita di peso corporeo) la terzipatide si è dimostrata superiore alla terapia con insulina basale, nello studio di confronto diretto e, in un altro studio di confronto diretto, terzipatide su questi parametri si è dimostrata superiore all’analogo del GLP-1 (semaglutide), che ha attualmente i migliori dati di efficacia su HbA1c e peso corporeo. Inoltre il farmaco si è dimostrato sicuro e con pochi effetti collaterali (principalmente nausea e, in casi più rari, vomito e diarrea). Questi dati faranno parte del dossier registrativo di terzipatide presso FDA ed EMA. Il processo richiederà ancora un pò di tempo, ma, sulla base di quanto riportato all’ADA, avremo presto un’altra potente arma per rendere più facile e più efficace il trattamento delle persone con diabete mellito di tipo 2.
“Lo scompenso cardiaco – ricorda il professor Angelo Avogaro – è una delle complicanze più frequenti nel paziente con diabete di tipo 2. La co-presenza di iperglicemia e resistenza all’azione dell’insulina porta non solo ad aterosclerosi delle arterie coronariche e a infarto, ma anche ad alterazioni strutturali del cuore con conseguente incapacità dell’organo di contrarsi regolarmente. Abitualmente, in presenza di scompenso cardiaco, è presente anche una riduzione della funzione renale dal momento che i due organi si influenzano reciprocamente. I denominatori comuni che portano al danno combinato di rene a cuore sono un’eccessiva ritenzione di sodio, un’attivazione del sistema renina-angiotensina, l’attivazione del sistema adrenergico, e uno stato infiammatorio”. Il paziente con diabete ha, a qualsiasi età, un maggior rischio di soffrire di scompenso cardiaco (le tipologie principali sono lo scompenso a frazione d’eiezione ridotta e a frazione d’eiezione preservata), una condizione che, a tre anni dal suo insorgere, è gravata da una mortalità di circa il 60%. “Tra i farmaci disponibili per il trattamento del diabete – continua il professor Avogaro – gli inibitori del riassorbimento renale del glucosio chiamati gliflozine, non solo riducono la glicemia ma sono in grado di proteggere il paziente diabetico e non dal rischio di scompenso cardiaco. Tra le gliflozine ne esistono però alcune che, oltre che agire sul riassorbimento renale di glucosio, agiscono anche sul riassorbimento intestinale dello stesso: tra queste il canagliflozin e il sotagliflozin. Queste due gliflozine sono quindi dei duplici inibitori del riassorbimento di glucosio. Dei due, il sotagliflozin non è ancora disponibile in Italia, nonostante i dati ottenuti nei pazienti diabetici con scompenso cardiaco e malattia renale cronica siano stati già pubblicati sul New England Journal of Medicine. Purtroppo per mancanza di fondi da parte dello sponsor è stato arruolato un numero di pazienti significativamente inferiore a quello previsto: nello studio SOLOIST-WHF a fronte di un numero previsto di pazienti da arruolare di circa 4.000, ne sono stati arruolati 1.222. Nello studio SCORED sono stati invece arruolati 10.584 pazienti.
All’ADA sono stati presentati i dati combinati dei due trial SOLOIST-WHF e SCORED; sotagliflozin ha ridotto riduce del 33% il rischio di un end-point combinato di morte cardiovascolare, ospedalizzazione per scompenso cardiaco, e visita urgente per scompenso, sia nel paziente con scompenso cardiaco recente e malattia renale cronica. Un dato ancor più eclatante è che tale riduzione non è stata osservata, come negli altri trials, solo nel paziente con scompenso cardiaco a frazione di eiezione ridotta, ma anche nel paziente con scompenso cardiaco a frazione di eiezione preservata. In conclusione SCORED e SOLOST-WHF hanno confermato il ruolo fondamentale delle glifozine nel proteggere sia la funzione cardiaca indipendentemente dal tipo di scompenso sia la funzione renale. Sotagliflozin in particolare, inibendo anche il riassorbimento intestinale di glucosio, sembra portare un particolare beneficio alle persone abitualmente poco rappresentate nei grandi trials: le donne e gli anziani.
PREVENIRE E TRATTARE IL DIABETE CON LA DIETA
OLGA VACCARO, ordinario di Endocrinologia, Università Federico II, Napoli – UOC di Diabetologia, Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II, Napoli
Diete per il diabete: dal passato ad oggi
Prima della scoperta dell’insulina la terapia nutrizionale del diabete riguardava sostanzialmente il diabete tipo 1 e consisteva in una severa riduzione dei carboidrati e delle calorie (starvation diet o dieta del digiuno) questo permetteva a i bambini con diabete di sopravvivere per qualche tempo, ma con gravi conseguenze sullo stato nutrizionale e sull’accrescimento. Con la scoperta dell’insulina (inizio anni ’20) si è passati a diete più coerenti con le necessità nutrizionali dell’organismo, aumentando il contenuto calorico e dei carboidrati.
Intorno agli anni 50 si è riconosciuta la necessità di una maggiore ‘liberalizzazione’ della dieta per renderla più simile a quella delle persone non diabetiche e favorire l’adesione utilizzando il principio della ‘lista di scambio’, cioè la possibilità di sostituire tra loro alimenti con simile composizione in nutrienti. A fine anni 70 emergere il concetto che gli effetti metabolici dei carboidrati variano a seconda dell’alimento che li contiene (es. contenuto di fibre, struttura fisica etc..). Si riconosce anche il ruolo negativo dei grassi della dieta – particolarmente quelli di origine animale – sul profilo lipidico, e si propone dunque di aumentare la quota di carboidrati per ridurre la quota di grassi. Oggi sono considerate accettabili percentuali di carboidrati dal 45 al 65 % della quota calorica. Un approccio nutrizionale più moderno è centrato sugli alimenti, piuttosto che sui nutrienti, poiché si è compreso che gli effetti metabolici di un alimento non sono solo spiegati dalla somma dei nutrienti che lo compongono, ma sono anche modulati dalla matrice in cui questi nutrienti sono contenuti. Anche combinare tra loro diversi alimenti contribuisce a modulare gli effetti metabolici, per questo oggi si dà molta importanza al ‘modello’ alimentare nel suo complesso. Modelli come quello Mediterraneo basato prevalentemente su alimenti di origine vegetale, non processati e sull’olio di oliva si sono dimostrati salutari per il trattamento del diabete e la prevenzione cardiovascolare e sono anche quelli più sostenibili dal punto di vista dell’impatto ambientale. Sulla base delle conoscenze attuali la terapia nutrizionale del diabete deve rappresentare un approccio globale alla salute della persona (es. trattamento del diabete, ma anche prevenzione delle malattie cardio-vascolari e di altre patologie croniche degenerative), deve essere anche economicamente accessibile per le persone ed ecologicamente sostenibile.
No alle diete a ‘taglia unica’; la nutrizione va personalizzata
Così come la risposta ai farmaci, anche la risposata alla dieta è determinata da fattori individuali (antropometria, assetto ormonale, patrimonio genetico, microbiota intestinale, ecc); una stessa dieta non ha gli stessi effetti su tutte le persone. Il concetto che la stessa dieta non si adatta ugualmente a tutti è stato teorizzato per la prima volta nel 1927 in una pubblicazione su JAMA che descriveva un trattamento nutrizionale ‘personalizzato per le persone con diabete sulla base della comunità di origine del paziente (italiana, ebrea etc..). Diversi studi hanno evidenziato che le persone esposte allo stesso alimento hanno una risposta metabolica diversa (es. livelli post-prandiali di glucosio, lipidi, insulina etc..) e addirittura la stessa persona, esposta ad uno stesso pasto in occasioni diverse, presenta risposte metaboliche differenti. Si parla quindi sempre di più di nutrizione personalizzata. È possibile effettuarla ad esempio nel trattamento delle malattie congenite del metabolismo, dovute a difetti genetici noti che interessano generalmente un solo gene. Tuttavia la grande variabilità della risposta metabolica agli alimenti è controllata da fattori genetici che coinvolgono una molteplicità di geni, non tutti noti, ed è anche potentemente modulata dallo stile di vita ed altre esposizioni ambientali. Al momento le conoscenze sui determinanti di questa grande variabilità biologica non sono sufficienti per permettere una identificazione precisa dei diversi ‘metabotipi’ ed un’applicazione clinica su larga scala. Le metodologie di studio a nostra disposizione sono ancora inadeguate ed occorre sviluppare metodi più precisi per misurare gli introiti e gli effetti.
Assistenza integrata al paziente diabetico
Gli aspetti educazionali e le modifiche dello stile di vita, nonostante siano riconosciuti efficaci nel controllare l’iperglicemia e prevenire le complicanze della malattia, sono scarsamente implementati nella pratica clinica. Per colmare questa lacuna nella cura del diabete è necessario allocare più risorse economiche ed umane e formare figure professionali ad hoc. Inoltre è necessario migliorare la comunicazione con il paziente. Sono stati presentati dati sull’utilità delle tecnologie digitali per ottenere un maggiore coinvolgimento del paziente, specialmente quelli più giovani. Infine, l’uso crescente delle tecnologie avanzate per la cura del diabete, particolarmente del diabete tipo 1 (es. sistemi di infusione continua di insulina) richiede un adattamento degli schemi nutrizionali fin qui utilizzati. La conta dei carboidrati di un pasto, se pure molto importante, non è l’unico elemento che condiziona la risposta glicemica. Il tipo di alimento (food matrix) e la combinazione con altri nutrienti (grassi, proteine) sono importanti determinanti della risposta glicemica post prandiale.
Prevenire il diabete di tipo 2 con la dieta
Molti studi di intervento controllati e randomizzati in passato hanno dimostrato che è possibile prevenire il diabete mellito tipo 2 in circa il 50% delle persone a rischio, attraverso modifiche dello stile di vita, in particolare modificando la qualità della dieta. Rimangono tuttavia molti interrogativi sulla possibilità di implementazione questi interventi in un contesto diverso da quello del trial clinico randomizzato e più vicino alla pratica clinica quotidiana. Molto importanti i risultati di uno studio condotto nel Regno Unito in cui i partecipanti a rischio di diabete sono stati identificati attraverso misure semplici come la glicemia a digiuno e l’emoglobina glicata, eseguiti di routine nella pratica clinica, anziché con la curva da carico orale di glucosio, come per il passato. I risultati di questo studio dimostrano che in questa popolazione l’intervento sullo stile di vita riduce l’incidenza del diabete di circa il 40%, confermando i risultati degli studi precedenti e ponendo le basi per interventi di prevenzione del diabete in un contesto di cure primarie. È un obiettivo importante vista la diffusione epidemica del diabete e dato che le persone a rischio sono asintomatiche e quindi possono essere identificate solo con misure di screening applicate nella comunità. Nello stesso simposio sono emersi altri aspetti importanti per l’implementazione di programmi nazionali di prevenzione del diabete a livello di popolazione. In particolare la necessità di adattare gli interventi nutrizionali alle diverse culture e condizioni socioeconomiche. La possibilità di utilizzare le tecnologie digitali per lo svolgimento di sessioni di educazione alimentare e mantenere il contatto con il team di supporto, l’automonitoraggio del peso corporeo e dell’attività fisica.
Rimane dibattuto se, e in che misura, questi interventi, validati nell’adulto, siano praticabili ed efficaci per prevenire il diabete tipo 2 nei giovani.
DIABETE E COVID-19
GIANLUCA PERSEGHIN, membro del Comitato Scientifico Fondazione Diabete Ricerca ONLUS della SID, professore ordinario di Endocrinologia Dipartimento di Medicina e Chirurgia Università degli Studi Milano Bicocca, direttore Dipartimento Medicina Interna e Riabilitazione e responsabile Unità Dipartimentale di Endocrinologia Policlinico di Monza, Milano
L’argomento dell’anno, anche al congresso dell’American Diabetes Association (ADA) è stato il COVID-19, nei suoi rapporti con il diabete. Diversi studi hanno cercato di dare una riposta a domande che richiedono una urgente risposta per attuare le strategie di prevenzione, cura e gestione più appropriate per il paziente con diabete a rischio di contrarre, o che abbia contratto, l’infezione da SARS CoV-2. Queste le domande più importanti:
Il diabete espone a maggior rischio di contrarre l’infezione da SARS CoV-2? PROBABILMENTE NO
Matthew Riddle, attuale direttore della rivista Diabetes Care (organo ufficiale dell’ADA), che si occupa di ricerca clinica relativa al diabete mellito, ha organizzato un Simposio dal titolo ‘Imparare a ridurre il rischio per i pazienti con diabete durante la pandemia da COVID-19’. La lettura introduttiva di Edward W Gregg epidemiologo dell’Imperial College di Londra ha affrontato il tema analizzando i dati presenti in letteratura. I risultati non consentono di rispondere con certezza alla domanda per le difficoltà nel raccogliere e controllare i dati in modo univoco, dai dati base amministrativi e clinici in tutto il mondo. Allo stato delle attuali conoscenze però, pur considerando le controversie emerse dai diversi reports, è probabile che il paziente con diabete non presenti un rischio aumentato di contrarre l’infezione.
Il paziente con diabete che ha contratto l’infezione da SARS Cov-2 ha un rischio di malattia più severa (ricovero ospedaliero, supporto ventilatorio intensivo, ricovero in terapia intensiva e morte)? SI
Nell’ambito del programma scientifico del Congresso dell’ADA, il problema è stato preso in considerazione da diversi speakers. Edward W Gregg nel suo intervento ha raccolto una robusta mole di dati sostenendo che il diabete ha contribuito nei primi 18 mesi della pandemia in modo robusto alla mortalità e alle co-morbidità determinate dall’infezione: il 30-40% dei pazienti ricoverati era affetto da diabete, tra il 20-40% dei ricoverati con diabete ha avuto bisogno di un ricovero in terapia intensiva. La percentuale di mortalità è stata del 25%, cioè il 50% più elevata rispetto ai trend storici, e pari al doppio rispetto alla popolazione generale, anche a causa della morte per cause collaterali, non direttamente associabili all’infezione ma ad essa collegabili in modo indiretto.
Indipendentemente dal fatto che il paziente diabetico presenti complicanze e comorbidità severe (età media avanzata, frequente insufficienza renale, malattie cardiovascolari, obesità e scompenso glicemico stesso) che possono aver contribuito ad esiti così sfavorevoli, rimane l’osservazione che i pazienti con diabete hanno contribuito in maniera decisiva a spiegare il frequente esito infausto dell’infezione da SARS CoV-2.
Alberto Coppelli, un collega italiano della Scuola dell’Università di Pisa diretta dal professor Stefano Del Prato, durante il Simposio dal titolo ‘Covid-19 e diabete – un aggiornamento’ ha dimostrato, sulla base dei dati generati nel centro italiano che, indipendentemente dalla diagnosi pregressa di diabete, l’iperglicemia di per sé, è strettamente associata ad una prognosi peggiore. Anche se è sempre molto difficile stabilire se l’iperglicemia sia la causa del decorso clinico sfavorevole o se sia stato il decorso clinico più sfavorevole a determinare iperglicemia più severa, il collega ha documentato delle strette correlazioni dell’iperglicemia non solo con l’esito finale dell’infezione, ma con tutta una serie di esiti intermedi sfavorevoli a livello polmonare, cardiovascolare, metabolico, pro-coagulativo e pro-infiammatorio assolutamente convincenti, sopportando in modo robusto la necessità di un controllo accurato dell’iperglicemia nel paziente con infezione da SARS Cov-2, per cercare di minimizzarne i danni.
Nello stesso simposio Francisco J Pasquel della Emory University – Atlanta, ha documentato, utilizzando il monitoraggio continuo della glicemia (Continuos Glucose Monitoring, CGM) nei pazienti ricoverati, che l’iperglicemia era molto frequente tra i pazienti ricoverati con l’infezione da SARS CoV-2 indipendentemente dal fatto che fossero affetti dal diabete o meno e che anche la variabilità della glicemia, non solo il suo valore medio, nel corso del ricovero si associava all’esito infausto.
Anche le persone con diabete di tipo 1, tipicamente più giovani, hanno una prognosi peggiore in caso di COVID-19? SI
Linda Di Meglio, Indiana University, nel simposio organizzato da Diabetes Care, ha dimostrato che anche tra i pazienti con diabete di tipo 1, la prognosi dopo aver contratto l’infezione è stata peggiore. I fattori di rischio principali sono stati in questo caso la lunga durata di malattia, la presenza di complicanze cardio-vascolari del diabete e il sovrappeso/obesità. È stato osservato però, che i pazienti che praticano un attento monitoraggio glicemico mediante monitoraggio domiciliare continuo della glicemia con l’ausilio tecnologico dei sensori hanno avuto paradossalmente un controllo glicemico migliore durante la pandemia, probabilmente perché consapevoli dei potenziali effetti positivi di un buon controllo glicemico.
Non sorprendentemente Bruce W Bode, Emory University, ha riportato come l’insorgenza della chetoacidosi diabetica nel paziente con diabete di tipo 1, facilitata dall’infezione, fosse associata a prognosi nettamente peggiore. Inoltre in modo correlativo, ha documentato dati secondo i quali l’accesso nel pronto soccorso per chetoacidosi diabetica in pazienti senza infezione sia aumentato probabilmente a causa della mancanza di regolari e prestabiliti controlli metabolici, impediti nel loro regolare svolgimento dall’emergenza della pandemia
Nei pazienti non diabetici, l’infezione da SARS Cov-2 determina un aumento del rischio di sviluppare il diabete? NO
Linda Di Meglio ha affermato che al momento non ci sono dati sufficienti a dimostrare che l’infezione da SARS CoV-2 si associ ad un aumento di incidenza di diabete di tipo 1. In particolare ha citato anche i dati Italiani di Ivana Rabbone dell’Università di Torino che non ha osservato nella sua ricerca un aumento di nuovi casi di diabete di tipo 1, durante il periodo di pandemia. Linda Di Meglio ha presentato gli effetti negativi indotti in termini di comunicazione sui mass-media da un blog pubblicato dal Direttore dell’NIH sul possibile e solo ipotizzato aumento di rischio di contrarre il diabete di tipo 1 a seguito dell’infezione da SARS Cov-2.
Il puntuale controllo dell’iperglicemia in regime di ricovero in pazienti con infezione da SARS CoV-2 si associa ad una prognosi migliore? SI
Ulteriori prove a sostegno del ruolo estremamente sfavorevole in termini prognostici innescato dall’iperglicemia durante il ricovero è stato riportato in modo consistente da tutti gli speakers in relazione agli effetti favorevoli che sono stati osservati nei pazienti che hanno ricevuto un controllo molto attento del compenso glicemico grazie alla somministrazione per via endovenosa o sottocutanea di insulina. Sono stati ricordati i dati degli studi della scuola pisana presentati da Alberto Coppelli e quelli riportati dai colleghi della Scuola Napoletana dell’Università della Campania Luigi Vanvitelli nel report di Celestino Sardu.
Gli ACE-inibitori possono aumentare il rischio di contrarre l’infezione da SARS CoV-2? NO
E i farmaci anti-diabete? NON SI SA CON CERTEZZA
Il dubbio è stato inizialmente sollevato per una classe di anti-ipertensivi molto utilizzati, gli ACE-inibitori, che potrebbero ipoteticamente facilitare l’ingresso del virus nelle cellule degli alveoli polmonari. In realtà dati epidemiologici molto robusti generati dalla Scuola di Epidemiologia e Statistica Farmacologica dell’Università degli Studi di Milano Bicocca (professori Giovanni Corrao e Giuseppe Mancia) hanno prodotto dati nella popolazione Lombarda decisamente rassicuranti in questo senso nel lavoro pubblicato l’anno scorso sul New England Journal of Medicine. Non è invece possibile ancora dare una risposta esaustiva per le classi di farmaci che vengono utilizzate per curare il diabete. Edward W Gregg nel suo intervento ha mostrato i dati prodotti da Kamlesh Khunti nella popolazione del Regno Unito nella quale è stata osservata una prognosi peggiore tra i pazienti che assumevano prima dell’infezione da SARS CoV-2 la terapia insulinica. È bene però interpretare con cautela questo dato di tipo osservazionale, perché potrebbe aver semplicemente intercettato il fatto che i pazienti in terapia insulinica possono essere più spesso in condizioni cliniche generali più compromesse e quindi predisposti per altre cause ad una mortalità maggiore.
I farmaci utilizzati per la terapia del diabete possono migliorare la prognosi del paziente con diabete o senza diabete? Il caso degli inibitori di DDP4 e degli inibitori di SGLT2
Esiste un razionale fisiopatologico secondo il quale alcune classi di farmaci utilizzate per trattare il diabete possano contrastare gli esiti nefasti dell’infezione da SARS Cov-2. In particolare i DPP4-inibitori somministrati durante il ricovero in pazienti con infezione da SARS CoV-2, sono stati associati ad un esito più favorevole da almeno due studi Italiani (Bruno Solerte in uno studio multicentrico Lombardo e Marco Mirani a Milano). Questi studi però richiedono una conferma in quanto generati con metodiche puramente osservazionali e retrospettive, che non consentono di controllare molte variabili importanti.
All’ADA sono stati presentati i risultati dello studio DARE-19, un trial clinico randomizzato multicentrico internazionale che rappresenta metodologicamente l’evidenza più robusta per dimostrare l’efficacia di un trattamento. Lo scopo dello studio è stato quello di verificare se la somministrazione di un farmaco della classe degli SGLT2-inibitori, dapagliflozin, fosse in grado di migliorare la prognosi di pazienti diabetici e non-diabetici ricoverati per infezione da SARS CoV-2 rispetto al placebo. Nel simposio si sono alternati come speakers Mikhail Kosiborod University of Missouri – Kansas City che ha descritto le caratteristiche dei pazienti reclutati, Otavio Berwanger Heart Hospital di San Paolo in Brasile che ha descritto i risultati dello studio focalizzando la sua attenzione sugli esiti prognostici dell’intervento e Subodh Verma, University of Toronto, che invece ha presentato i dati relativi ai possibili eventi avversi che si sarebbero potuti ipoteticamente associare a questa terapia, in pazienti con infezione acuta in atto.
Berwanger ha documentato come il trattamento non abbia significativamente influenzato né in senso positivo né negativo l’esito della malattia in termini di mortalità e in termini di danno d’organo (respiratorio e cardio-vascolare in particolare); Verma ha dimostrato come il trattamento non fosse associato ad eventi avversi potenzialmente associabili alla terapia. Lo studio è molto importante perché costituisce una prova molto robusta a supporto del fatto che se da un lato non possiamo aspettarci dall’uso del farmaco in questione un beneficio assoluto sull’evoluzione dell’infezione da SARS Cv-2, dall’altra sappiamo che è sicuro e che non deve essere interrotto nei pazienti già in trattamento, al momento dell’infezione.
Due aspetti finali.
Credo che tra i numerosi eventi programmati all’ADA debbano essere ricordati
il simposio intitolato ‘Quando il Covid-19 si scontra con il diabete – dati ed esperienze relative all’impatto nei pazienti con diabete’ che si è focalizzato nel ricordare soprattutto i danni collaterali di tipo organizzativo dovuti all’infezione da SARS Cov-2 e relativi alla paralisi di molte delle attività di supporto, diagnosi e cura sia ospedaliere che ambulatoriali che non hanno potuto erogare le consuete prestazioni per la gestione dei pazienti diabetici. Per la mancata erogazione di tale assistenza sanitaria è stato stimato un aumento del rischio di morte e di eventi associati all’insorgenza di complicanze (ben documentate quelle relative al piede diabetico) nei pazienti diabetici che non hanno potuto accedere ai regolari controlli del compenso glicemico e monitoraggio dell’insorgenza delle complicanze
il simposio intitolato ‘COVID-19, Diabete, e Obesità’ che si è focalizzato su diabete e obesità quali fattori di rischio prognostici sfavorevoli nei pazienti con infezione, che annoverano diverse condizioni e meccanismi fisiopatologici comuni che amplificano il danno d’organo respiratorio, cardiovascolare, immunitario, pro-infiammatorio sistemico e di stress ossidativo. Naveed Sattar, Matthew Frieman, Antonio Ceriello e Pedro Moraes-Vieria hanno elegantemente mostrato come obesità e diabete, quando presenti simultaneamente nello stesso individuo, possono moltiplicare il loro effetto negativo sull’aspettativa di vita di questo paziente e hanno anche descritto i possibili meccanismi patogenetici sottostanti.
L’INSOSTENIBILE PESO DEL DIABETE SUI RENI: NOVITÀ TERAPEUTICHE E NUOVE LINEE GUIDA
ANNA SOLINI, membro del Consiglio Direttivo della Società Italiana di Diabetologia e coordinatore del Comitato Didattico; professore associato di Medicina Interna, Università di Pisa –UOC di Medicina Interna I, Universitaria Azienda Ospedaliero Universitaria Pisana
Rilevanza della malattia renale cronica in corso di diabete
È UN Tema di grande rilievo epidemiologico del quale è necessario aumentare la consapevolezza nella popolazione generale e nei soggetti con diabete. Dati aggiornati al 2019 mostrano un aumento progressivo nelle ultime tre decadi dell’insufficienza renale terminale negli Stati Uniti e tutti i paesi industrializzati. Il diabete è una malattia in aumento esponenziale e si presume che nel 2045 ci saranno 629 milioni di persone al mondo con diabete diagnosticato, e almeno altri 200 milioni di diabetici non diagnosticati. Il diabete è, insieme all’ipertensione, la principale causa di insufficienza renale terminale e la prognosi dei pazienti diabetici in dialisi è peggiore di quella di molte neoplasie (solo le neoplasie più aggressive, quali quelle dello stomaco, del polmone, del pancreas si associano ad una prognosi peggiore rispetto alla combinazione di diabete + insufficienza renale terminale). È necessaria dunque una maggiore consapevolezza della rilevanza clinica e delle severe implicazioni prognostiche della malattia renale cronica, tra l’altro gravata da un altissimo rischio cardiovascolare e da un’alta prevalenza di scompenso cardiaco.
SGLT2 inibitori, cardio-protezione e nefro-protezione nel paziente con insufficienza renale cronica.
In termini di nefro-protezione farmacologica, ci sono state ulteriori conferme e una rivalutazione globale dell’ampia letteratura già emersa a favore soprattutto di una categoria di farmaci usati nel trattamento del diabete: gli SGLT2 inibitori.
Oltre allo studio SOLOIST, commentato dal Professor Avogaro, un altro dato interessante è una analisi più dettagliata dell’EMPEROR-Reduced, uno studio già pubblicato, condotto con empagliflozin, che aveva dimostrato una significativa riduzione del rischio di scompenso cardiaco e di morte per scompenso cardiaco in soggetti con e senza diabete. Un’osservazione rilevante emersa da recenti sotto-analisi dello studio EMPEROR è la straordinaria rapidità della protezione esercitata nei confronti dello scompenso cardiaco che è altamente prevalente nei pazienti con malattia renale cronica. Già dopo pochissimi giorni di trattamento si evidenzia una differenza significativa fra il braccio in placebo e quello in trattamento. Inoltre, anche in questi soggetti fragili portatori di scompenso cardiaco si conferma l’effetto nefro-protettivo, con rallentamento della perdita del filtrato glomerulare che si allinea alla perdita fisiologica attesa per età (che è pari a circa 1 ml/min/anno).
Finerenone e progressione della malattia renale cronica nel diabete
Per la prima volta un farmaco appartenente alla categoria degli inibitori dei mineralcorticoidi (già largamente usati nel trattamento dello scompenso cardiaco) dimostra una nefro-protezione rilevante nei pazienti diabetici con malattia renale cronica. È il finerenone, antagonista non steroideo dei mineralcorticoidi. Lo studio FIDELIO, condotto in pazienti con diabete e malattia renale cronica, dimostra una riduzione significativa della progressione verso l’insufficienza renale terminale, o di una riduzione importante (superiore al 40%) del filtrato glomerulare, o di morte per cause renali. Un altro interessante evidenziato in questo gruppo di pazienti è una significativa riduzione di comparsa di fibrillazione atriale, un importante disturbo del ritmo cardiaco, frequente nei soggetti diabetici soprattutto anziani. Simulazioni statistiche suggeriscono che la somministrazione a questi pazienti di un trattamento articolato, che combini diverse classi di farmaci (oltre a quelle già note per proteggere il rene, anche gli SGLT2 inibitori e forse anche il finerenone) sembrerebbe garantire un numero significativo di anni guadagnati in benessere, evitando la morte cardiovascolare o lo scompenso cardiaco o i ricoveri per scompenso cardiaco.
Linee Guida KDIGO (Kidney Disease Improving Global Outcomes)
Al congresso dell’ADA sono state presentate le linee guida KDIGO 2020, attese da anni e promulgate da questo organismo internazionale e di rilevanza mondiale che ha il compito di monitorare l’andamento delle malattie renali nel mondo e, soprattutto, di fornire una sorta di decalogo alla loro gestione. Una porzione rilevante di questo monumentale opera, tra l’altro corredata di una iconografia chiarissima e molto efficace, non solo per i medici e per gli addetti ai lavori, ma per i pazienti stessi, è quella che riguarda appunto il rapporto tra diabete e malattia renale cronica.
Principali novità: riabilitate le proteine nella dieta e la metformina. Molto raccomandati ACE-inibitori/sartani e SGLT2 inibitori
Viene abbandonato il concetto delle diete ipoproteiche severe nel diabetico con malattia renale, che sortiscono solo l’effetto di aggravare e accelerare la malnutrizione in questi pazienti, mentre non portano alcun vantaggio documentato in termini di risparmio di filtrato e rallentamento della progressione verso l’insufficienza renale terminale. Si raccomanda di mantenere un apporto proteico normale, che è intorno a 0.7-0.8 grammi di proteine pro chilo/die ma niente di più.
Forte raccomandazione ad usare i farmaci anti-ipertensivi, in particolare ACE-inibitori e sartani, alla massima dose tollerata, sospendendoli solo in caso di gravi effetti collaterali (es. gravissima iperpotassiemia); viene così stigmatizzata la cattiva abitudine di molti medici di utilizzare i farmaci antipertensivi a dosi non congrue.
In tutti i pazienti con diabete, malattia renale e filtrato glomerulare superiore a 30 ml/min viene raccomandata la scelta prioritaria di un SGLT2 inibitore, da non sospendere per l’iniziale calo di filtrato, mantenendo il trattamento anche se il filtrato scende sotto 30 ml/min. Tale farmaco va combinato con la metformina, per anni erroneamente criminalizzata in presenza di compromissione renale, ed oggi completamente riabilitata.
Viene sottolineata la necessità di implementare programmi educazionali specificamente dedicati a questi soggetti con diabete e malattia renale cronica, volti a migliorare la loro conoscenza e consapevolezza della malattia, eliminare convinzioni distorte e falsi miti, migliorare l’autogestione di situazioni complesse e la motivazione a cercare di mantenere i vari parametri in range e, attraverso un approccio multidisciplinare, incoraggiare i pazienti ad adottare e mantenere degli stili di vita sani, aumentandone la consapevolezza e l’inclinazione all’utilizzo dei farmaci senza paura e con convinzione, e migliorare da ultimo lo stato di benessere mentale, la fiducia e la soddisfazione nei trattamenti. Tutto questo deve essere perseguito e raggiunto attraverso l’interazione di varie figure professionali e comunitarie, con un sistema capillare di informazioni cliniche di supporto alle decisioni che deve essere fornito al paziente, che deve assumere un atteggiamento proattivo, perché correttamente informato.
NOVITA’ PER IL DIABETE DI TIPO 1: NUOVE LINEE GUIDA DI TRATTAMENTO, ‘ENDOTIPO’, TEPLIZUMAB, SOLUZIONI ANTI-IPOGLICEMIA, SCREENING GENETICO, TERAPIA BIOLOGICA
LORENZO PIEMONTI, membro del Consiglio Direttivo della Società Italiana di Diabetologia, professore associato di Endocrinologia all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano e visiting professor presso la Vrije Universiteit di Bruxelles, direttore del Diabetes Research Institute e responsabile del programma di trapianti di isole umane presso l’IRCCS Ospedale San Raffaele, Milano
Consensus report di ADA ed EASD per il trattamento del diabete di tipo 1
La diagnosi. Viene suggerito un algoritmo per la diagnosi del diabete di tipo 1 nell’adulto che preveda il dosaggio degli autoanticorpi (iniziare con GAD, se negativo fare IA2 e o ZnT8; non consigliato ICA); nell’ipotesi di un 5-10% di soggetti con autoanticorpi negativi, è previsto un algoritmo che prende in considerazione la diagnosi differenziale con diabete monogenico e diabete di tipo 2, utilizzando soprattutto come criterio l’età e i valori di C peptide circolante.
I target. Introdotti anche i parametri legati all’utilizzo del monitoraggio in continuo della glicemia (Emoglobina glicata <7%; valori pre-prandiali di glicemia 80-130 mg/dl; valori di glicemia a 1-2 ore dopo il pasto <180 mg/dl; variabilità glicemica <36%). Importante evitare le complicanze acute (chetoacidosi diabetica e ipoglicemia) e minimizzare il rischio cardiovascolare
La terapia. la sottolineatura principale è sulla personalizzazione dell’approccio mettendo al centro il paziente. Sono suggerite le forme più avanzate di terapia con la tecnologia ma ogni soggetto con diabete deve conoscere le modalità di uso dell’insulina in modo basilare. Sia per monitoraggio che per terapia possibile tutte le scelte adattate alle singole esigenze anche se il monitoraggio continuo della glicemia (CGM) e l’ hybrid closed loop sembrano i sistemi miglior nell’assicurare un buon successo terapeutico. In presenza di un controllo stabile si suggerisce una v visita annuale; se il controllo non è stabile, necessarie anche 4 o più visite all’anno. Il documento inoltre:
raccomanda di effettuare almeno una volta lo screening per patologia autoimmune della tiroide (TSH), gastrite atrofica (vitamina B12), celiachia.
sottolinea la centralità del concetto di Diabetes Self Management Education and Support (DSMES) e di Individualized Medical Nutrition Therapy (MNT). Proprio sull’alimentazione non si dà una indicazione specifica univoca di stile alimentare ma si evidenzia la necessità di gestire nel modo più appropriato le scelte senza un modello unico ma adattato secondo i gusti e le modalità del soggetto
sottolinea l’importanza dell’attività fisica anche nel paziente con diabete di tipo 1.
sottolinea l’importanza del problema della insensibilità alla ipoglicemia, che deve essere ricercato attivamente vista la rilevanza sul rischio di mortalità e morbidità.
sottolinea molto l’aspetto psicologico (il 20-40% dei soggetti con diabete di tipo 1 mostra un Diabetes Related Emotional Distress, fino al 15% depressione, non sono infrequenti i disturbi del comportamento alimentare e la patologia di ansia). L’aspetto psicologico gioca un ruolo fondamentale nel successo del trattamento.
inserisce nell’algoritmo terapeutico il trapianto di pancreas e di isole pancreatiche
prende atto di terapie aggiuntive all’insulina: metformina (solo in casi molto particolari come policistosi ovarica e obesità), pramlintide (approvata negli USA ma non in Europa), GLP-1 agonisti possibili in alcuni casi (in presenza di sovrappeso e obesità, rischio cardiovascolare e renale alto), SGLT-2 inibitori (approvati in Europa, ma non negli USA, se l’indice di massa corporea è >27)
sottolinea la necessità di adeguare la terapia in particolari sottopopolazioni: (i) gravidanza, pre-concepimento e post parto (target più stretti con maggior rischio di chetoacidosi diabetica ed ipoglicemia), (ii) paziente anziano (il primo target qui deve essere la safety), persone con complicazioni avanzate (gastroparesi, insufficienza renale), pazienti ricoverati (mancano studi specifici sui target e si fa riferimento a studi fatti sul diabete di tipo 2)
Ipoglicemia: è ancora uno dei principali problemi della terapia del diabete. Le possibili soluzioni future
Lo studio Sage su 3.858 soggetti evidenzia che nei tre mesi precedenti alla valutazione il 67,7% dei soggetti ha avuto un episodio di ipoglicemia con valori inferiori a 70 mg/dl, il 49,9% con valori inferiori a 54 mg/dl e l’11,9% ha avuto almeno un episodio di ipoglicemia severa nei 6 mesi precedenti. La tecnologia ha dimostrato la possibilità di migliorare il controllo glico-metabolico, senza aumentare il rischio di ipoglicemia, ma non ha ridotto il rischio di ipoglicemia. Ci sono alcune evoluzioni precliniche nel campo delle cosiddette Smart Insulin, cioè formulazioni di insulina in grado di autoregolarsi e rilasciare principio attivo in funzione della disponibilità di glucosio. La prospettiva più concreta è però l’introduzione del glucagone in associazione all’insulina nel repertorio terapeutico. Il glucagone fino ad ora è stato utilizzato solo come terapia dell’ipoglicemia grave. Lo sviluppo di formulazioni di glucacone stabili sta permettendo la possibilità del suo utilizzo nella prevenzione dell’ipoglicemia in alcune condizioni particolari come l’esercizio fisico intenso, ma soprattutto l’utilizzo nel pancreas artificiali biormonale la cui registrazione a FDA per somministrazione della sola insulina potrebbe arrivare nel 2020 e in associazione con glucagone nel 2023.
Il diabete di tipo 1 è una malattia eterogenea, nella predisposizione genetica come nella risposta alle terapie. Il concetto di ‘endotipo’
Riconoscere che il diabete di tipo 1 è una malattia eterogenea ha una serie di importanti conseguenze. Innanzitutto implica ruoli differenti degli aspetti genetici e ambientali nelle cause, e potenzialmente quindi anche nella prevenzione, nella terapia (target glicemici, terapie aggiuntive, tecnologia) e nello sviluppo delle complicanze. Il ruolo dei differenti geni di predisposizione per esempio è differente, in età differenti. Si introduce il concetto di ‘endotipo’ come elemento interpretativo che va oltre il fenotipo. Questo è particolarmente importante negli ultimi anni per le terapie volete alla prevenzione e preservazione delle beta cellule. Ci sono 6 trattamenti che hanno dimostrato la capacità di preservare le cellule beta dopo l’esordio del diabete di tipo 1, ma non tutti i soggetti hanno risposto in modo adeguato e nel complesso nessuno di questi ad oggi è stato registrato con l’indicazione per il diabete di tipo 1 poiché l’entità del beneficio non compensa ancora i rischi e poiché il beneficio tende a declinare dopo la sospensione del trattamento. Per cui si sta valutando la possibilità da una parte di identificare i responder, presupponendo l’esistenza di una eterogeneità della malattia e dall’altra la possibilità di terapie in combinazione.
Teplizumab ritarda l’insorgenza del diabete di tipo 1 nei soggetti ad alto rischio. Attesa a breve l’approvazione dell’FDA
I dati attualmente disponibili, nei soggetti trattati con teplizumab mostrano un ritardo di insorgenza della malattia di 32,5 mesi con una riduzione del rischio del 54%. Ad oggi considerando la popolazione iniziale, il 22% dei soggetti con placebo è libero da malattia, contro il 50% dei soggetti trattati con teplizumab che al momento si è dimostrato un trattamento sicuro e di breve durata (10-14 giorni). Il 27 maggio è stato discusso alla Advisory Committee di FDA che ha votato 10 a 7 favore e a giorni ci sarà la definitiva risposta di FDA. L’approvazione potrebbe cambiare radicalmente l’approccio alla malattia, soprattutto perché richiederebbe l’identificazione dei soggetti da trattare, che oggi sono esclusivamente ricercati nei soggetti con familiarità positiva all’interno di studi accademici.
Gli screening per individuare i soggetti a rischio di diabete di tipo 1
Uno dei temi caldi dell’area è quello di implementare screening per identificare i soggetti a rischio di sviluppare diabete di tipo 1. Oggi il rischio genetico per lo sviluppo del diabete di tipo 1 può essere quantificato grazie a genetic risk scores alla nascita. Quindi lo screening genetico è possibile, ma bisogna tener conto che può essere diverso in etnie diverse e per ora abbiamo buoni sistemi per i caucasici, meno per altre etnie. L’utilizzo di GRS2 con un cut off al 90° percentile permette di identificare il 77% di futuri casi di diabete di tipo 1 (con un rischio sul singolo del 2.4%). Ovviamente aumentando il cut off (99.9 percentile) il rischio individuale sale al 20% ma scende il numero di casi che si intercettano (7%). Le questioni aperte sono molte a partire dalla esigenza o meno di sviluppare uno screening di popolazione, la tempistica adeguata per la ricerca della risposta immunitaria, la modalità e la valenza in popolazioni rispetto a familiari e in soggetti adulti rispetto a soggetti pediatrici. Esistono degli studi di screening già in atto: per esempio il Bavaria FR1DA study che valuta bambini di 2-5 anni (139.792 bambini, 410 con due autoanticorpi, 0.29% cioè malattia preclinica; 81 ha sviluppato diabete), ASK in Colorado 1-18 anni includendo anche screening per malattia celiachia (25.738, 135 con due anticorpi (0.52%), 29 ha sviluppato diabete, rischio a 10 anni 70%; 705 con celiachia 2,7%), GPPAD in Europa screening genetico 255.000 con meno di 5 mesi (1.04% con rischio elevato). TRIALNET USA/EU almeno 1 anno fino a 45 anni se familiarità primo grado positivo, fino a 20 se secondo grado (209.372 con 5.661 positivi con più di un anticorpo
Funzione cognitiva e diabete di tipo 1 (studio DCCT/EDIC)
Lo studio DCCT/EDIC sta seguendo la popolazione originaria dello studio DCCT per valutare l’insorgenza delle complicanze. Nel periodo tra 18 e 32 anni dall’osservazione (età media 60 ani) si è assistito ad un declino dell’efficienza mentale e psicomotoria cinque volte superiore rispetto a quello tra basale e i primi 18 anni. Le variabili associate al declino sono risultate l’emoglobina glicata (un aumento dell’1% corrisponde ad un invecchiamento di 3,3 anni), pressione sistolica (un aumento di 5 mm di pressione sistolica corrisponde ad invecchiamento di 4 anni), ipoglicemia (uno o più eventi equivale ad un invecchiamento di 4,6 anni). I tre fenomeni combinati sono risultati equivalenti ad un invecchiamento di 9,6 anni, in termini di funzione cognitiva.
Ci sono dei fattori ambientali coinvolti nella comparsa di diabete tipo 1?
Ne sono stati suggeriti molti, ma nessuno per ora è stato dimostrato essere un driver reale di malattia, per cui non esiste al momento ancora una modalità di prevenzione primaria della malattia. Particolare attenzione si è concentrata sul ruolo che Sars-CoV-2 potrebbe avere nell’insorgenza del diabete di tipo 1. Sono stati presentati dati discordanti sull’infezione delle cellule beta. Al momento non c’è evidenza di un’associazione in acuto tra insorgenza di diabete di tipo 1 infezione da Sars-CoV-2. Non c’è evidenza di un peggior esito nei pazienti diabetici di tipo 1 pediatrici mentre c’è evidenza di un esito peggiore nei pazienti adulti, in particolare sopra i 45 anni, in modo proporzionale alla durata di malattia e allo scompenso glicemico.
Il rischio cardiovascolare nei pazienti con diabete di tipo 1 è molto importante.
Il paziente con diabete di tipo 1 ha nel rischio cardiovascolare uno dei principali pericoli per comorbidità e mortalità. La cosa è ulteriormente amplificata dall’aumentata prevalenza di sovrappeso e obesità, anche nella popolazione con diabete di tipo 1 (in particolare negli USA). La discussione è se cominciare a considerare i farmaci che si sono dimostrati estremamente efficaci nel paziente con diabete di tipo 2 sulla prevenzione della comorbidità cardiovascolare (scompenso cardiaco e agonisti del GLP-1) anche nel paziente con diabete tipo 1.
Terapia biologica del diabete di tipo 1: grandi speranze per il futuro. La terapia sostitutiva ha stabilizzato la sua indicazione in un gruppo ben preciso di soggetti con diabete di tipo 1. Il trapianto di pancreas e di isole sono contemplati negli algoritmi terapeutici del diabete di tipo 1 nei soggetti con diabete instabile/problematico laddove la terapia tradizionale fallisce. Negli Stati Uniti un problema regolatorio ha però di fatto impedito lo sviluppo del trapianto di isole, che rischia di non poter essere più effettuato in ambito accademico. In Europa per fortuna questo problema regolatorio non sussiste e grazie al riconoscimento da parte dei sistemi sanitari in molti paesi, la terapia è disponibile per i pazienti particolarmente complicati da gestire. Nel frattempo le evidenze sulla possibilità di trattare i pazienti con terapie basate su cellule staminali si sta rafforzando ed è stata presentata la prova di principio di funzione in studi di fase 2.